È difficile immaginarlo, ma uno degli scrittori preferiti da Primo Levi era François Rabelais, il grande autore dei libri di Gargantua e Pantagruel. Nel francese desueto di Rabelais, Levi definiva una certa storia (tosta, divertente e rocambolesca) “de haulte graisse”, di abbondante lardo. Noi infatti sappiamo che “grasso” significa molte cose; tra le altre sia “strato adiposo” (e quindi “persona imbottita da abbondante strato adiposo”) sia “sboccato, licenzioso, grossolano” sia “gagliardo”. È una parola censurabile?
A proposito di storie “de haulte graisse”, quando nell’adolescenza mi è capitata in mano un’edizione di Moby Dick pensavo di aver già letto il gran libro di Herman Melville, soltanto lo facevo meno lungo né mi tornava in mente nulla di quelle strane parti enciclopediche. Non ricordavo bene neppure le scene iniziali in cui il narratore incontra un ramponiere polinesiano, vanno a dormire nella stessa branda e fanno molta amicizia. Almeno non mi erano parse tanto gaie. A un certo punto capii: da ragazzino avevo letto soltanto un adattamento. Si usava né era sempre dichiarato. Una generazione dopo la mia i ragazzini appassionati di cartoni animati giapponesi hanno visto edizioni assai edulcorate di Sailor Moon, senza cambiamenti di sesso e senza i nudi peraltro innocentissimi dell’originale.
Quanto è ora capitato all’opera di Roald Dahl, che per volontà degli eredi detentori dei diritti verrà edulcorata nel linguaggio, per certi versi càpita da sempre. In inglese l’operazione ha anche un verbo specifico, “to bowdlerize”. Viene dal nome del letterato Thomas Bowdler, che all’inizio dell’Ottocento pubblicò The Family Shakespeare, una versione espurgata dei drammi shakespeariani, privata di riferimenti sessuali, oscenità, eccessi di violenza e adatta quindi alla lettura scolastica dei minori. Ci fu poi anche chi riteneva che anche questa versione non fosse abbastanza castigata e si proponeva di “bowdlerize Bowdler”: si trattò nientemeno che di Lewis Carroll, l’autore di Alice.
A chi oggi si meraviglia occorre chiedere come ha fatto a non accorgersi che il mondo non è meno bacchettone di prima, lo è di più, e non può neppure ripararsi più dietro all’alibi di una società apparentemente puritana. Siamo bacchettoni impuri. Proprio per questo ora è diverso, ed è peggio. Il cattivo di Dahl che era “enormemente grasso” diventerà soltanto “enorme”, in attesa che qualcuno si offenda anche per l’aggettivo “enorme”.
I problemi sono due. Il primo riguarda il piano del contenuto: non sono ritenuti socialmente ammissibili riferimenti a certi contenuti e l’uso di espressioni che hanno connotazioni considerate offensive. Si tratta del tentativo di istituire dei tabu. Ne abbiamo bisogno ? Dobbiamo fare ogni sforzo per secernere testi inoffensivi? Il dibattito è noioso ma aperto.
Il secondo problema riguarda il piano dell’espressione: chi ha il diritto di mettere mano ai testi per far sì che non risultino offensivi? Innanzitutto l’autore: lo fece Torquato Tasso con la Gerusalemme liberata, che divenne “conquistata” e prude dopo la sua revisione. Poi vengono gli eredi, che hanno diritto soprattutto di impedire nuove edizioni, pubblicazioni di inediti, o ritocchi e adattamenti vari. Dato che gli eredi spesso sono consorti e figli e dato che spesso consorti e figli detestavano l’opera di cui ora detengono i diritti (e che ha distratto da loro le attenzioni dell’illustre de cuius), l’integrità dell’opera stessa non è certo garantita. Nel cinema invece diritti non sono degli autori, bensì dei produttori: così ai film succede tutto ciò che può succedere, con il motivo – o la scusa, o l’alibi – delle esigenze produttive.
Qualcosa è cominciato quando sono stati colorati i film in bianco e nero: erano ritenuti meno commerciabili e quindi – risolto il problema tecnico – non è sorto alcun problema filologico: sono stati colorati.
Il problema è allora chi ha il potere di decidere e quale è il criterio secondo cui deciderà. Dahl per noi è un autore, per l’industria è una specie di inventore che ha venduto il suo brevetto, che viene manipolato sino a che potrà reggere sul mercato.
Sul piano dell’espressione si tratta di un problema industriale.
Sul piano del contenuto il problema si riassume in una parola, che è la soluzione della prima parte dell’indovinello che segue e che ha come protagonista il doppio senso di “grasso”. Si tratta di una combinazione di “scarto”, nei versi dell’enigmista Magopide (pseudonimo di Salvatore Chierchia). Data: 1961. Oggi sarebbe censurabile già dal titolo.
La “chiattona” va a passeggio
Attentamente cerca ad ogni passo
di non mostrare il grasso;
ma i piedi ne risentono qualcosa
e ad ogni mezzo metro si riposa.
I primi due versi alludono alla censura (“passo” letterario, “grasso” come “licenziosità”); gli ultimi due alla cesura (piedi metrici, riposa: torna a posarsi).
Questa è Lapsus del 25 febbraio 2023, la rubrica di Stefano Bartezzaghi sulle parole del momento